Un’importante personaggio del Rāmāyaṇa è Mantharā, la famosa serva gobba di Kaikeyī, la moglie giovane del vecchio re Dasharatha, padre di Rama. Mantharā è importante nella trama del Rāmāyaṇa, perché è lei che convince la regina Kaikeyī a costringere il re Daśaratha a mandare Rāma (l’eroe dell’opera, incarnazione di Viṣṇu) — il primogenito di Daśaratha, avuto da un’altra moglie, Kausalyā — in esilio nella foresta per 14 anni, e consacrare re suo figlio, Bharata (fratellastro di Rāma e anch’egli, a dirla tutta, incarnazione di Viṣṇu).
A tal fine Mantharā, nell’ambito di un memorabile dialogo (ayodhyAkhaNDa, 7-9), ricorda a Kaikeyī che il re, tempo prima, partecipando, in aiuto a Indra, ad una battaglia fra dei e demoni, era stato proprio da lei (cioè da Kaikeyī) salvato, e riavutosi, le aveva solennemente promesso due doni in segno di riconoscenza. Kaikeyī, non desiderando nulla di speciale lì per lì, gli aveva detto che in caso avesse voluto qualcosa in futuro, glielo avrebbe chiesto, e lui aveva acconsentito: era giunto il momento — questo il maligno consiglio di Mantharā — che Kaikeyī pretendesse, come doni a suo tempo promessi dal re, appunto che Rāma venisse bandito e Bharata consacrato re al posto suo.
E così infatti poi avviene, cioè Kaikeyī ricorda la promessa a Daśaratha e gli impone (in un altrettanto memorabile dialogo) di esiliare l’amato figlio primogenito e consacrare al suo posto Bharata, loro proprio figlio (l’idea di Mantharā era che tempo 14 anni e Bharata si sarebbe assicurato un controllo assoluto del potere, impedendo così poi a Rāma, ritornato dall’esilio, di riprendersi il trono).
Quando leggiamo le fonti secondarie, tutte, unanimi, ci dipingono Mantharā la gobba, come il personaggio negativo per eccellenza, brutta e cattiva per così dire, capace di fare leva sulle debolezze di Kaikeyī per trasformarla da amata moglie in perfida tiranna (di fatto poi il vecchio Daśaratha ci muore, di questa storia).
Leggendo il testo sanscrito però le cose appaiono ben diverse: se è certamente vero che viene definita avida (arthaparA) e maligna (pApadarzinI), è anche vero che scopriamo subito che Mantharā è una serva nata nella famiglia della regina (jJAtidAsI) ed è cresciuta con lei (sahoSitA). Quindi di fatto è una sua inseparabile amica.
Il fatto parecchio interessante però, è che in verità nel dialogo fra le due, la fedele serva con la gobba e la giovane nobile regina, risulta chiaro che Kaikeyī, di primo acchito ben lieta che Rāma divenisse re e non Bharata, è una donna estremamente ingenua in fatto di questioni dinastiche e molto naif per quanto riguarda la sua posizione rispetto alla madre di Rama.
“Ma svegliati”, le dice la gobba servitrice: “dopo Rāma, il trono passerà ai figli di Rāma, e giammai a Bharata, e tanto meno ai tuoi nipoti: tutti saranno per sempre estromessi dal comando. E tu, mia cara Kaikeyī diventerai oggetto del disprezzo di Kausalyā la madre di Rāma, che ti tratterà come una serva: finalmente infatti potrà vendicarsi di tutte le volte che tu l’hai umiliata perché sei la favorita del re, in quanto più bella e più giovane!”
Di colpo Kaikeyī si illumina e capisce: e quindi ringrazia infinitamente Mantharā per averla avverita, e le dice che ha capito che lei è la migliore e l’unica a volere veramente il suo bene: ora ha capito il subdolo piano del re, cioè estromettere lei e suo figlio dal potere! Improvvisamente invasa da un odio per questo falso e vecchio marito che la voleva ingannare, e letteralmente infatuata di Mantharā, Kaikeyī le dedica una lode che secondo me rappresenta un gesto letterario sopraffino di Vālmīki.
Come per magia infatti vediamo il corpo deforme della gobba Mantharā trasformarsi in un corpo desiderabile, e il poeta mette in bocca a Kaikeyī espressioni inusuali sì, ma basate sugli elementi standard delle lodi alla bellezza femminile, come se mossa da improvviso amore scoprisse che quel corpo che lei non aveva mai considerato altro che deforme, è invece bello e desiderabile, e può diventare motivo di orgoglio e vanto.
Così possiamo ammirare anche noi Mantharā, e scoprirla dall’aspetto gradevole (priyadarsanA), “simile a un loto piegato dal vento”, “con un seno compatto e che, ben eretto, arriva fino alla spalla incurvata”, “con un ventre piatto e un ombelico discreto”, “con un sedere rotondo e aggraziato da una cintura a forma di ghirlanda”, “delle gambe forti e dei piedi lunghi e dritti”, “simile a un cigno reale quando cammina vestita di lino bianco davanti alla regina”.
Ma c’è di più: dopo aver descritto in questi termini il corpo deformato eppure bello della sua amata serva, Kaikeyī loda “la grande gobba” che diventa “la magica sacca da cui tu trai la tua intelligenza superiore, la conoscenza delle faccende dinastiche, i trucchi”.
Quindi, per effetto dell’amore, il difetto macroscopico, diventa pregio unico. E allora Kaikeyī si lancia ad immaginare come lei gratificherà la sua serva gobba quando Rāma sarà in esilio e Bharata sarà re:
“Ti metterò una collana tutta d’oro, o gobba, e coprirò la tua gobba con un sottile strato d’oro purissimo, mia bella, e sul volto ti farò fare una variegata decorazione beneaugurante con polvere d’oro e ti farò fare degli splendidi gioielli! E vestita di splendide vesti ti aggirerai come una dea, solo il tuo volto sarà umano, e camminerai a testa alta piena d’orgoglio davanti agli altri! E anche tu avrai, come ho io le mie ancelle, delle altre gobbe che ti accudiranno!”
Mi è parso davvero notevole questo passo, perché dimostra molto bene come l’amore, come l’affetto, possano trasformare, e in effetti trasformino, qualunque corpo, anche il corpo fortemente anomalo, in un corpo bello, in un corpo da amare, in un corpo desiderabile, un corpo di cui essere orgogliosi, perché, come ogni corpo, è un corpo unico.