Lo yoga: è questione di fede o di cultura?

Sono più di 20 anni che mi interfaccio con la realtà dei centri yoga italiani e, se indubbiamente una cerchia di centri yoga mi ha accolto e mi accoglie, ospitando sia corsi di sanscrito che di filosofia (menziono in questo senso per esempio il Centro Daiva Jyoti di Torino, www.daivajyoti.com, dove terrò, nell’ambito di un corso di formazione insegnanti, il mio prossimo corso di sanscrito il 14 e 15 dicembre 2024, e, sempre a Torino, Essere Yoga www.facebook.com/EssereYogaTorino, o, a Milano, per esempio i centri yoga Spazio Shanti www.spazioshanti.com, Kriya Yoga Ashram www.kriyayogaashram.com, Ganga Yoga www.gangayoga.eu, Centered Yoga Studio centeredyogastudio.org, o, a Asti, SempliceMente Yoga www.semplicementeyoga.it, tutti centri questi ultimi che hanno recentemente ospitato mie iniziative);
è altrettanto indubbio che molti centri yoga invece non mi hanno aperto e non mi aprono le porte, convinti che introdurre il sanscrito o la filosofia dell’India sarebbe per loro un di più; un di più che si risolverebbe in definitiva in un troppo per chi frequenta il centro yoga; e un troppo che, per di più, non servirebbe né agli iscritti al centro yoga per fare progressi nella pratica, e neppure al centro per fidelizzare chi vi si reca, cioè per renderli ancora più convinti di frequentare quel determinato centro yoga e non un altro.
Del resto è vero che la maggior parte delle persone che frequentano i centri yoga in Italia non approfondisce più di tanto il lato culturale di ciò che fa, e questo non per una sua qualche colpa o leggerezza, ma per almeno due motivi di ordine generale se non strutturale, e comunque riguardo ai quali il singolo praticante di yoga non può nulla o può ben poco.
Il primo motivo che spiega questo anomalo disinteresse, in chi si interessa di yoga, per il contesto culturale (l’India antica e classica) che ha prodotto lo yoga stesso, è che in generale, a prescindere dallo yoga, la civiltà indiana classica è praticamente del tutto ignorata da chi viene universalmente riconosciuto come colto (i vari professori, filosofi, critici d’arte, giornalisti culturali, ecc.), per cui non è facile, anche per chi fa yoga, credere davvero che l’India classica abbia prodotto una cultura degna di essere indagata (altrimenti — io anche la penserei così — i “nostri” colti la conoscerebbero, ne parlerebbero, vi farebbero riferimento). Del resto, è praticamente impossibile sentire parlare “casualmente” di India classica (che ne so, a teatro, al cinema o in un programma culturale della radio o della TV) e sentirsi così, in quanto praticanti di yoga, più stimolati (e più punzecchiati) a approfondire l’argomento; oltretutto, il fatto è che laddove uno poi volesse effettivamente indagare meglio il contesto culturale entro cui si è sviluppato lo yoga, anche solo per semplice curiosità, è difficile trovare fonti secondarie all’altezza dell’arduo compito di infrangere il muro di non considerazione e di ignoranza eretto appunto intorno all’India classica (sapeste quanto manca, a tutti, un Luciano De Crescenzo per la divulgazione della filosofia indiana antica!)
Il secondo motivo (e qui, va detto, gli insegnanti di yoga sono almeno in parte responsabili) per il quale chi fa yoga prende sì molto, o comunque abbastanza, sul serio lo yoga, ma non sente per questo, in genere, l’esigenza di approfondire il contesto culturale entro cui lo yoga si è sviluppato, dipende dal fatto che evidentemente nessuno gli ha ancora spiegato con chiarezza e abbastanza insistenza che, per l’efficacia della propria pratica (a prescindere dall’obiettivo che uno si pone con essa) è molto conveniente prendere coscienza della dimensione culturale dello yoga, e trarne le dovute conseguenze, fra cui appunto certamente anche mettere a fuoco l’importanza, per la pratica stessa, di dedicare tempo e energia pure ad attività di approfondimento culturale e non solo all’esecuzione degli āsana e alla frequentazione del proprio centro yoga.
In effetti, prendere coscienza del lato culturale della propria pratica di yoga, cercando di chiarirsi, almeno in parte, il contesto filosofico in cui lo yoga si radica, per capirne bene i concetti chiave e tentare di assimilarli in profondità, è conveniente perché è forse il miglior modo (è certamente il più sicuro) per rendere la propria pratica davvero e definitivamente convincente ai propri occhi, e quindi davvero e definitivamente efficace, dato che senza una profonda convinzione, senza cioè quella che in sanscrito si chiama śraddhā, nessuna pratica può funzionare, se non forse per un periodo molto limitato (poi infatti si smette, si molla lì, e ogni apparente “progresso” cui la pratica aveva portato svanisce nel nulla).
Se non si coglie e si coltiva la dimensione culturale della propria pratica, l’unica alternativa per costruire la propria śraddhā, o profonda convinzione, è affidarsi ciecamente e esclusivamente alla persona e al luogo che ci hanno introdotto alla pratica stessa, cioè al determinato maestro o maestra del determinato centro yoga che ci è toccato in sorte di frequentare: diventano lui, o lei, il “senso” principale della pratica, il che evidentemente è sia pericoloso per la tenuta, sul medio e lungo periodo, della pratica, sia psicologicamente stressante per per il maestro o la maestra, che possono e vogliono sì introdurre i propri allievi e le proprie allieve nella pratica yoghica di cui sono appunto maestri o maestre, ma non possono e vogliono trascinarceli “a forza” e poi mantenerceli “magicamente” con la forza della loro (dei maestri e delle maestre) pratica!
Non so se mi spiego: un conto sono la riconoscenza nei confronti delle persone, in carne ed ossa, che ci trasmettono un contenuto culturale, e la forza che ci viene dalla fiducia nel fatto che esse siano persone di valore, che ci guidano con la loro conoscenza, con il loro sguardo, con la loro voce, con la loro presenza; un conto è affidare tutto il senso e la potenzialità della scelta di includere nella propria vita un contenuto culturale di matrice non-occidentale (in questo caso una pratica di yoga) alla specifica persona che ce lo ha presentato, aspettando e pretendendo che sia lei a fare ogni passo ulteriore sulla via in cui ci ha immesso.
Certo, siamo tutti d’accordo: ci vuole fiducia nello yoga e anche in chi ce lo trasmette; ma solo un genuino sforzo per conoscere e capire meglio ciò che è lo yoga e ciò che con lo yoga si fa, può trasformare un sentimento di fiducia in profonda e motivata convinzione, in śraddhā, e senza una reale e motivata convinzione la fiducia rischia fortemente di degenerare in una forma di dogmatismo bigotto e ignorante (e non c’era certo bisogno di scomodare lo yoga per arrivare a un tale italico risultato!)

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