“L’Attenzione” di Alberto Moravia: anche buddista!

Che “L’Attenzione” di Alberto Moravia sia un romanzo di valore non sta certamente a me doverlo ribadire, né spetta a me evidenziare l’importanza di Moravia nel panorama letterario italiano del dopoguerra, però credo possa essere utile che io evidenzi la componente chiaramente buddista, o se vogliamo indiana (ma è in particolare buddista) di questo romanzo, scritto, non a caso, subito dopo il mitico viaggio in India che Moravia fece, nel 1961, in compagnia di Pasolini e Morante.
Di quel viaggio in India (ai miei occhi “mitologico” come quelli di poco successivi dei Beatles o di Jimi Hendrix), Pasolini scrisse ne L’Odore dell’India, cui Moravia fece seguire il suo Un’idea dell’India: ma, mi sento di aggiungere, è con quel viaggio nella mente, è integrando nella sua narrativa quello che aveva imparato, o comunque su cui aveva riflettuto e discusso, incontrando la civiltà indiana classica, e in particolare il buddismo, che Moravia scrisse anche L’Attenzione (pubblicato nel 1964), perché non può essere un caso che in esso ritroviamo tutti o quasi i temi centrali della riflessione buddista.
Il titolo in primis è rivelatorio in questo senso: l’attenzione (sati o appamāda in Pali) è il cardine della meditazione specificamente buddista, cioè è l’elemento che il Buddha indica come chiave per il raggiungimento dell’illuminazione, e il protagonista rivolge tutti i suoi sforzi, nel tentativo di migliorare la sua vita, proprio a passare da uno stato di disattenzione, che lui dice aver caratterizzato la propria vita nell’ultimo decennio, a uno stato di attenzione, grazie al quale, lui spera, potrà vivere in maniera più significativa e gratificante.
Si potrebbe pensare a un caso (del resto io ho aperto L’Attenzione senza alcuna aspettativa o intenzione diversa dal leggermi un altro bel libro di Moravia: non pensavo certo di ritrovarmi a studiare un testo con una forte componente di ispirazione buddista!), e per questo, come farò ripetutamente nel corso di questo post (quindi il lettore si prepari: è un post lungo!), faccio seguire due citazioni che riguardano in particolare il binomio disattenzione/attenzione (ce ne sarebbero ben di più ovviamente su tale binomio), per corroborare la mia tesi della perfetta consapevolezza di Moravia di attingere e ispirarsi a tematiche buddiste nello scrivere L’Attenzione.
La prima è tratta dalle pagine del prologo:

“Di quei dieci anni, tra il 1953 e il 1962, ho un ricordo confuso, come appunto di cose viste e fatte in una condizione di continua disattenzione. Rivedo treni che mi portano attraverso paesaggi sempre diversi, aeroplani che decollano, che volano e che atterrano in aeroporti, navi che entrano e escono dai porti, automobili che corrono per vie di città e strade di campagna. (…) Questa disattenzione, del resto, non mi costava alcuno sforzo; sentivo di esservi portato da una inclinazione naturale. (…) Dormivo e sognavo di essere sveglio, di fare l’inviato speciale e di viaggiare da un paese all’altro e di ritornare a Roma e di scrivere gli articoli e poi ripartire per un altro viaggio. Questa condizione di sonno mi pareva tuttavia preferibile a quella della veglia; e perciò non facevo nulla per destarmi. (…) Intanto continuavo a viaggiare per il giornale, con metodo e diligenza, aggiungendo ogni anno che passava una nuova pietra all’edificio della mia disattenzione. (…), la mia disattenzione nei riguardi della mia famiglia, era un po’ simile all’insensibilità prodotta da un anestetico. Non si sente più niente; ma al tempo stesso si sente che non si sente più niente, il che, in fondo, è una maniera di sentire. Così io in casa mia. Io non ignoravo Cora come si ignora qualcuno che per noi davvero non esiste; l’ignoravo come si ignora qualcuno che tutto il tempo si sa che esiste e perciò si è consapevole di ignorare [vedi tematica buddista della rimozione della consapevolezza della morte]. La disattenzione era dunque il senso della sospensione dell’attenzione, non la mancanza pura e semplice di attenzione. Io sentivo che ero disattento; e tanto più lo sentivo, quanto più riuscivo ad esserlo.”

La seconda citazione riguardo al binomio attenzione/disattenzione invece è tratta dall’ultima parte del libro (p.271-273), un dialogo in cui il protagonista comunica al suo superiore (un vecchio amico che non aveva più rivisto ora divenuto suo capo) il suo intento di scrivere, a margine della sua attività di giornalista, un romanzo sull’attenzione:

“Un romanzo? E che romanzo è?”
“E’ la storia di un uomo che, improvvisamente, decide di fare attenzione.”
“Di fare attenzione a cosa?”
“A ciò che gli succede sotto il naso.”
“Che cosa gli succede?”
“Eh, tante cose.”
“Ma quali?”
“Beh, per esempio che sua moglie fa la ruffiana.”
“Ma lui non lo sa?”
“No.”
“Vive con lei?”
“Sì, vive con lei.”
“Vive con lei e non sa che fa la ruffiana? Impossibile”
“Perché impossibile?”
“Perché certe cose si vedono, e anche più che vederle, si sentono. (…). Comunque, quest’uomo in che modo viene a scoprire che la moglie fa quel mestiere?”
“Lo scopre perché, come ho già detto, decide di fare attenzione.”
“E che fa allora?”
“Non fa nulla.”
“E cioè?”
“Nulla, si contenta di guardare.”
“Guardare che cosa?”
“Guardare le cose che vede.”
(…) Finora Consolo si era distratto con il mio romanzo come un bambino con un balocco nuovo. Ad un tratto si è fatto più serio: “La sola obiezione allora che mi resta da fare è proprio sul titolo.”
“E cioè?”
“Sul titolo, cioè sull’argomento indicato dal titolo. L’attenzione non mi sembra affatto un argomento attuale. Al tuo posto lo sai di che cosa parlerei? Della disattenzione.”
L’ho guardato. Si è lisciato i baffi e ha soggiunto:
“Almeno a me, la disattenzione sembra il vero argomento da trattare.”
“Sarebbe a dire?”
“Sarebbe a dire la storia di un uomo che per quanti sforzi faccia, non riesce ad essere attento.”
Mi ha guardato con un mezzo sorriso sotto i baffi spioventi. Ho detto quasi involontariamente: “La tua storia?”
“La storia di tutti. Cosa credi? Non c’è una sola persona oggi che sta con la testa alle cose che fa.”
“Scusami, tu vorresti dire che oggi è impossibile stare attenti, fare attenzione?”
“Sì, voglio dire proprio questo. E perciò quando tu mi dici che il tuo personaggio riesce ad essere attento, io ti avverto: si tratta di un romanzo, va bene, è opera di fantasia. Ma nella vita questo non avviene.”
“Che cosa avviene nella vita?”
“Non soltanto nella mia, ma anche in quella di molta gente che conosco, avviene semplicemente questo: che non si riesce a stare attenti, anche se si vuole. In un modo o in un altro, tutto sfugge.”
“Vuoi dire: tutto sfugge a te.”
“Tutto sfugge a tutti, Francesco. Lo sai che cosa provo qualche volta?”
“Che cosa?”
“E’ difficile a dirsi. Come di essere fuori del tempo e dello spazio, ossia mille anni fa o tra mille anni, non a Milano o a Roma ma chissà dove. Qualche volta Gioia che mi conosce, per mettermi alla prova mi domanda: ‘Cosa hai fatto questo pomeriggio?’ Ora io sono stato appunto con lei ma non riesco a ricordarlo, perché mentre ero con lei, non stavo, come tu dici, attento, ero disattento. Dunque, torno a ripeterlo: meglio sarebbe che tu non scrivessi alcun romanzo, beninteso nell’interesse del giornale; ma se proprio hai da scriverlo, sia non ‘L’Attenzione’, ma ‘La Disattenzione’.
Scherzava; ma ho capito che lo faceva per arginare la commozione che è propria di chi parla, appunto, del male di cui soffre. Ha soggiunto in fretta: “S’intende che tutto ciò non mi impedisce affatto di lavorare e di fare il mio dovere. Lavoro e come. E ora, dopo questa parentesi letteraria, torniamo a noi. (…)”

Ma, evidentemente, non è solo il tema dell’attenzione a farmi dire che in questo romanzo Moravia scrive dopo aver ben riflettuto al messaggio buddista e forse ispirato da esso: gli altri temi principali de L’Attenzione, fatti scaturire nella trama del romanzo dalla scelta del protagonista di volgersi all’attenzione, sono infatti il vuoto esistenziale cui corrisponde un’inautenticità delle cose stesse (l’inautenticità della realtà, in termini strettamente buddisti la sua vacuità, è uno dei Leitmotiv dell’intera opera); il desiderio erotico come motore delle azioni e della società umana; la corruzione della mente, del corpo e della società come fatti ineluttabili, “organici” e quindi non percepibili mentre avvengono, né sostanzialmente evitabili o condannabili moralmente dall’interno della società stessa; l’impossibilità di sottrarsi alla trama anonima, insensata e mai veramente “agita” della vita (neppure quando si compiono atti inauditi); il rapporto fra ideologia (a sua volta vista come forma di nominalismo) e amore erotico-sentimentale, amore che quindi (in pieno accordo col messaggio del Buddha) si dimostra anch’esso vuoto e inautentico; la mancanza di un nucleo identitario psichico profondo che caratterizzi ogni uomo (altro tema centrale del messaggio del Buddha, il famoso anatta, sanscrito anātman); il rinnovarsi continuo della realtà; la fluidità del reale (il romanzo si conclude con due scenari opposti entrambi possibili di cui l’autore non ci dice qual è quello vero); l’abisso di vuoto rappresentato dal sesso inteso come atto erotico solo fisico; tutti temi indubbiamente buddisti, cioè notoriamente e ampiamente dibattuti nelle fonti e negli ambiti buddisti (nel romanzo ovviamente ci sono apporti molto forti, che per altro “mascherano” ai più l’elemento buddista, anche dal pensiero psicanalitico nonché vi è condotta un’interessante critica letteraria sul genere del romanzo, una critica del nazismo, visto come corruzione organica della società contemporanea a Hitler, e altro ancora: Moravia è Moravia, capace di fare questo ed altro).
Ma certo, sono temi, tutti questi menzionati, anche genericamente esistenzialisti, e perciò penso sia utile (nella speranza che anche il lettore di questo blog ami leggere Moravia) citare ancora il testo, per far emergere non solo nei temi, ma anche nelle immagini e nel lessico la componente indubbiamente “indiana” (o meglio buddista) de L’Attenzione (scritto come detto subito dopo un viaggio dell’autore in India in compagnia di Pasolini e della moglie).

Prendiamo per esempio p. 24-26, nel prologo, la scena che, come dicono le parole finali del passo citato, “segnò la fine di quel periodo della mia vita”: quale conoscitore anche superficiale della letteratura buddista non ne riconoscerebbe chiaramente gli influssi?

“(…) levai gli occhi e vidi che la ragazza si era distesa nuda sopra il letto; e per un momento rimasi lì, immobile e stupefatto, a guardarla.
Davanti ai miei occhi stava non già il corpo di donna morbido, grasso, infantile che avevo immaginato; bensì uno scheletro rivestito di pelle. La rotondità dei fianchi che poco fa mi era sembrato di indovinare sotto gli ondeggiamenti della gonna, in realtà non era che un’illusione ottica prodotta dalle pieghe del tessuto e dalla larghezza del bacino. Carnose erano in lei soltanto la faccia, il collo e i polpacci; tuto il resto non era che ossa. Le cosce simili a due bastoni attaccati ad angolo retto al bacino giacevano parallele sulla coperta, con un grande vuoto tra di esse nel quale, come la testa di un neonato, il pube si affacciava con un ciuffo di peli neri, molli e lunghi; la cassa toracica, sporgendo alta sul ventre incavato e grinzoso, rivelava ogni costola sotto la pelle stirata; i seni non erano che due pieghe appiattite; le due ossa delle braccia si dipartivano da quelle delle spalle con una rigidezza da tavola anatomica. La guardavo silenzioso, lei mi guardava di rimando, senza timidezza e anzi quasi con una specie di sfida compiaciuta. Domandò alla fine: “Ma che hai, perché non vieni a letto?”
Non dissi niente. (…). Pronunciai alfine con uno sforzo: “Ho che non sapevo che tu fossi così magra. Ma come mai sei così magra?”
Rispose con indifferenza: “Per nessun motivo. Sono sempre stata così. E’ la mia costituzione.”
Dissi: “Capisco, ma come fai, voglio dire non ti nuoce di essere così magra per il mestiere che fai?”
Rise, levò un braccio e si passò la piccola mano paffuta fra i femori, lisciandosi; e poi rispose: “Ma lo sai che è proprio questa magrezza a piacere? Dapprima rimangono stupiti, come te, ma poi gli piace. (…)”
Tacque un momento e poi, loquace e vanitosa, riprese: “L’altro giorno, un tedesco non la finiva più. Diceva che gli piacevo più di qualsiasi altra ragazza che aveva incontrato qui in Italia. Diceva qualche cosa in tedesco, aspetta, ah sì, totentanz. Che vuol dire?”
Tradussi meccanicamente: “Vuol dire danza dei morti.”
“E perché danza dei morti?”
(…)
“Non era molto lusinghiero per te.”
“Perché?”
“Perché quel tedesco ti trattava da scheletro, ti chiamava morte.”
Si lisciò di nuovo tra i femori, compiaciuta e impudica, poi disse alzando le spalle: “Per me mi chiamino come gli pare purché mi paghino. (…) Va bene, sono la morte; e con questo? Vieni, su, facciamo l’amore.”
Debbo dire che intanto, passata la sorpresa, mi era venuto un desiderio di specie, diciamo così, intellettuale. Sì, pensai, lei era la morte, quella delle danze macabre affrescate nelle chiese; ma era pure il nulla intorno al quale giravo da tanto tempo e che finalmente si presentava a me con la sua vera sembianza. Così salii sul letto e mi gettai con sufficiente ardore su quelle ossa. (…), in fondo era una sensazione nuova e strana possedere uno scheletro, penetrando nel sesso morbido e vivo che sembrava esservi rimasto impigliato un po’ come un caldo nido di uccello rimane impigliato tra i rami secchi e freddi di un albero invernale.
Dopo l’amore, restammo ancora un poco insieme, distesi l’uno accanto all’altra; quindi lei si assopì e io la guardai mentre dormiva. Era proprio uno scheletro; e come uno scheletro giaceva scompostamente, piena di angoli retti e acuti, dando l’impressione che a una scossa tutte le ossa grandi e piccole di cui era composta potessero staccarsi le une dalle altre e ricadere in disordine sulle coperte. Finalmente si destò, discese dal letto, andò nel bagno, sedette a gambe larghe sulla tazza, e orinò a lungo. L’osservai attraverso la porta che non si era curata di chiudere: mi parve quasi incredibile che da uno scheletro così asciutto potesse uscire una quantità così grande di liquido. (…) Una volta vestita, le diedi il denaro e poi l’accompagnai nell’ingresso. Mi disse sulla soglia: “Ti è piaciuta la totentanz? Se ci vuoi rifare, telefona a Gina e combina con lei”. (…) L’ascensore si fermò al piano, la morte mi salutò con la mano e scomparve.
La visita di quella ragazza-scheletro segnò la fine di quel periodo della mia vita. (…)”

In questo passo (p. 60) invece, il concetto di nulla va ben oltre il nulla sartriano per esempio (dato che coinvolge anche la realtà, quindi non il solo pour soi ma anche l’en soi), esprimendo invece bene il concetto buddista di vacuità (suññatā, śūnyatā in sanscrito):

“E ho capito ad un tratto che stavo di fronte al nulla, che Baba era il nulla e io ero turbato non già perché lei mi si offriva, ma perché era il nulla. Quel nulla che avrei potuto amare appunto perché era il nulla. E così questo amore avrebbe significato per me amare per la seconda volta nella vita; la prima era stato con sua madre nella quale avevo amato tutte le cose che allora credevo che fossero la realtà, e poi invece queste cose si erano rivelate inautentiche e io mi ero dato al nulla, cioè, al rapporto con le compiacenti ragazze che mi venivano a trovare a casa. Ma poi mi ero strappato da questo nulla [ponendosi nella condizione di attenzione], e adesso, ecco, esso si ripresentava con maggior forza e precisione e aveva il corpo di Baba, la faccia di Baba, era lei, Baba; e io sentivo che potevo amarla perché lei incarnava il nulla che era intorno a me e dentro di me, allo stesso modo che a suo tempo avevo amato Cora perché mi era sembrato che incarnava le molte cose che io credevo di avere dentro di me e intorno a me. Ma questo nulla di Baba aveva un nome ed era piuttosto da questo nome che da lei stessa in carne ed ossa che mi sentivo attirato; e questo nome era quello che si dà al rapporto amoroso tra un uomo e una donna che hanno i vincoli di parentela che correvano tra me e Baba. Ora io mi rendevo conto che se non ci fosse stato l’idea o meglio il nome di incesto, probabilmente io non l’avrei desiderata. Così ancora una volta era dimostrato che per me non poteva esserci azione autentica neppure quando l’impulso ad agire sembrava venire dal profondo. Infatti: il mio desiderio era scattato automaticamente al suono di un nome e per giunta falso, poiché, dopo tutto, non eravamo veramente padre e figlia.”

Questo dell’autenticità, o meglio il tema dell’inautenticità, è, come detto, uno dei temi ricorrenti di tutto il romanzo e non solo l’inautenticità dell’azione, ma anche delle cose stesse, come risulta da questa riflessione che il protagonista fa a proposito di un suo romanzo che ha precedentemente distrutto perché ad una rilettura gli era parso totalmente finto (“Inconfondibile, un’aria di falsità, di irrealtà, di inautenticità insomma, emanava da ogni parola del manoscritto” dice quando ne parla per la prima volta, a p.14):

“Non vorrei tuttavia essere frainteso. Il romanzo poteva dirsi riuscito e non avrebbe certo sfigurato tra la produzione narrativa di quegli anni. Situazione, personaggi, stile, costruzione e strutture contribuivano abbastanza naturalmente a formare un organismo complesso che aveva tutte le apparenze della vitalità. E tuttavia, questa storia della ricerca dell’autenticità attraverso l’amore per una donna del popolo, era assolutamente inautentica. L’inautenticità non stava però nella pagina, bensì, si sarebbe detto, nei fatti stessi che vi erano narrati. Era un’inautenticità, per così dire, costituzionale, come se gli avvenimenti che avevo cercato di raccontare fossero stati già in origine, prima ancora di essere raccontati, irrimediabilmente inautentici. Ma questi avvenimenti io non li avevo inventati; li avevo ricavati dal mio passato più recente. Il protagonista ero io; la ragazza del popolo che il protagonista amava e sposava era Cora; il padre e la madre della ragazza erano il padre e la madre di Cora; (…); la città in cui vivevano e agivano questi personaggi, era quella stessa Roma in cui vivevo e agivo io stesso. Dunque, una volta di più, inautentico non era tanto il libro, quanto la realtà dalla quale era stato ricavato.”

Questa della ricerca di una scrittura autentica che dia luogo a un romanzo autentico, è la motivazione che spinge, dopo che ha fatto a pezzi e gettato dalla finestra il vecchio manoscritto, il protagonista a tenere un diario, in quanto la sua intuizione è che l’inautenticità del romanzo e dei fatti che esso raccontava potesse dipendere dalla preminenza in quel romanzo dell’azione (“Ora qui, come si dice volgarmente, giaceva la lepre: l’inautenticità del romanzo derivava dal fatto che vi si agiva”, p.35). Bene, si dice il protagonista, allora io scriverò un romanzo sulla vita quotidiana, sul tran tran dove non succede nulla, e lì trasparirà l’autenticità delle cose, della vita. Così tiene un diario, da cui poi trarre il romanzo, in uno dei suoi soggiorni romani fra un viaggio e l’altro (è un inviato speciale di un giornale conservatore ma ricco, che quindi può mandarlo costantemente di qua e di là e scrive gli articoli al suo ritorno a Roma), ma l’autenticità pare sfuggire anche alla narrazione del quotidiano, tanto che il protagonista afferma (p.285), in un passo in cui io non posso non percepire un netto sapore buddista:

“Dunque, a quanto sembrava, l’inautentico era nell’azione stessa nel momento in cui si agiva. E dunque, ancora una volta, l’inautentico si rivelava nel cuore medesimo delle cose, nella loro composizione, cioè nella materia stessa di cui era fatta la realtà. E non si poteva agire che in maniera inautentica, come probabilmente non si potevano scrivere che romanzi inautentici, dal momento che un romanzo senza azione non era un romanzo. Ma tra l’azione nel romanzo e l’azione nella realtà c’era questa differenza; che nella realtà l’azione, anche se inautentica, “funzionava”; mentre invece un romanzo inautentico era un brutto romanzo e non “funzionava”.

L’inautentico nelle cose, che non è altro che la śūnyatā, spiega fra le altre cose, nel romanzo e nel pensiero buddista, l’intercambiabilità di ogni ruolo sociale ad eccezione beninteso, per il buddismo, di quella del monaco (ne L’Attenzione è lo scrivere un romanzo a determinare la diversità esistenziale del protagonista rispetto a tutti gli altri; ma, ovviamente, in Moravia la scelta di scrivere un romanzo non è discriminante se non per lo scrittore stesso e forse, aggiungo, per i suoi lettori):

“Ma allora mi è venuta un’improvvisa illuminazione. Quello che avevo visto era veramente una scena normale, anche nella realtà che si nascondeva nelle apparenze. Questa scena era infatti nient’altro che un particolare minimo del flusso continuo ed uniforme della vita quotidiana. Su quello stesso marciapiede c’erano stati in quel momento innumerevoli passanti; e di tutti io avrei potuto supporre ragionevolmente le stesse cose che sapevo che si potevano supporre di Cora, (…) perché non c’era in fondo niente che potesse distinguere quelle vite, anche se innocenti, da quella di Cora, niente, voglio dire, di sostanziale e di originario. Tutte queste vite partecipavano infatti in un modo o in un altro di quello che io non potevo fare a meno di chiamare corruzione e che non era invece che il moto impercettibile, incessante e naturale del vivere quotidiano inautentico e insensato.” (p.289-90)

Come detto, l’elemento buddista de l’Attenzione s’intreccia con tanti altri di matrice invece chiaramente occidentale e per questo può sfuggire, o addirittura (immagino) essere fermamente negato da chi non sia familiare con le tematiche buddiste e col loro impatto sulle dinamiche culturali e sociali nella civiltà indiana antica (non a caso, per esempio, il buddismo è sempre stato associato, nell’India antica, a un notevole dinamismo socio-economico e a un’intensa creatività artistica). D’altra parte, pur trovando lungo tutta l’opera elementi che io ritengo di origine buddista, non è sempre così facile, come nei passi citati qui, trovarne tracce innegabili, clamorose per così dire.

Ciò non toglie che il supposto “buddismo moraviano” che io spero di aver fatto emergere, dimostra, almeno ai miei occhi, una cosa molto importante, e cioè che l’interesse culturale della civiltà indiana classica non risiede tanto e solo nei suoi monumentali prodotti (opere e sistemi concettuali), ma più che altro, concretamente, risiede nel fatto innegabile che essa offre tanti elementi potenzialmente “utili” alla nostra cultura, utili perché a noi “mancano”, ma non nel senso che troviamo, nella civiltà indiana classica, argomenti che noi non conosciamo (questo di fatto è molto raro, anche per le profonde influenze greche sulla civiltà indiana classica, ma soprattutto perché l’uomo è sempre quello e le domande sono sempre quelle e quindi pure le risposte non possono essere poi così radicalmente altre), bensì nel senso che la civiltà indiana classica, si occupa sì di questioni note anche in Occidente, ma lo fa seguendo percorsi diversi, percorsi che quando studiati, capiti e recepiti da un intellettuale vero (come per esempio Moravia) gli rivelano aspetti che possono arricchire notevolmente la sua creatività, senza per questo che essa dia luogo a prodotti culturali con tratti esotici o incoerenti (non esiste nulla, del resto, di più “letteratura italiana del dopoguerra” di Moravia).
D’altra parte, l’aver scoperto in maniera del tutto casuale questa “anima buddista” di un noto romanzo della letteratura italiana mi fa pensare con ancora più convinzione che la difficoltà dell’opera di divulgazione dell’eredità indiano-classica non sia la spesso menzionata differenza culturale che renderebbe L’India classica troppo distante dall’occidente odierno e quindi troppo difficile “da presentare e da accogliere” fuori dall’ambito accademico (dove lo studio dell’India si auto-giustifica e quindi non è necessario metterne in luce alcuno specifico “senso”, salvo poi accorgersi che i dipartimenti stanno chiudendo e gli studenti non ci sono più — ma finché c’è lo stipendio per il corpo docenti nessuno pare voler far nulla per invertire questo trend); no, non è un incolmabile gap culturale, non sono gli argomenti o i modi di ragionare diversi e distanti dalla nostra sensibilità a essere problematici, ma è il fatto stesso che sentendo o dicendo “India classica” scatta nella mente di ognuno, e in parte forse anche nella mia, un senso di lontananza e estraneità che, attraverso un processo di disimmedesimazione, ci lascia per così dire “tranquilli” (e quindi sostanzialmente incapaci di cercare e recepire gli elementi e i messaggi che ci sarebbero davvero utili), poiché non sentiamo di dover, e nemmeno di poter, prendere troppo sul serio quel che è stato concepito in una terra così distante, e, soprattutto, che in pochi conoscono e che nessuno menziona mai nei dibattiti culturali contemporanei pubblici.
E’ del resto questa la domanda che io vedo aleggiare negli occhi dei miei interlocutori quando propongo loro di impegnarsi in un percorso di scoperta dell’eredità culturale indiana classica, una domanda inespressa ma capace di stroncare sul nascere qualunque possibile reale sviluppo, e cioè: “Può davvero riguardarci questo sanscrito, questa filosofia dell’India, questo Mahābhārata? E’ tutto molto interessante, sì, nessuno lo mette in dubbio, ma per te che sei studioso, o per persone non del tutto “normali”, non per noi che non sappiamo nulla di India” e sono proprio simili meccanismi di distanziamento mentale da tutto ciò che non è occidentale che rendono difficile cogliere le potenzialità in termini di apporto diretto che concetti emersi in ambito per esempio indiano classico potrebbero facilmente avere, che ne so?, nel dibattito politico o filosofico o anche in ambito esistenziale o, infine, per potenziare la propria creatività intellettiva e artistica.
Ebbene un simile meccanismo di chiusura mentale in Moravia evidentemente non è scattato e questo gli ha permesso di immettere tematiche buddiste (senza per altro minimamente dichiararlo, che io sappia) ne l’Attenzione, senza con ciò renderlo un romanzo meno italiano o più distante da noi di altri suoi romanzi, anzi (ci hanno fatto anche un film, no? Forse brutto, però: io non l’ho visto).

2 pensieri su ““L’Attenzione” di Alberto Moravia: anche buddista!

  1. paolo flamini

    Bello riuscire a integrare nella nostra cultura elementi apparentemente lontani, perché in realtà poco studiati da noi, ma costituenti un contributo positivo ai nostri interrogativi

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    1. Giulio Geymonat Autore articolo

      Sì, quando lo fece Moravia in questo romanzo (60 anni fa) era alla portata di pochi “illuminati”: ora, grazie al tramonto quasi completo dell’eurocentrismo (certo, non a scuola o in TV: ma medici, musicisti, stilisti, scrittori e creativi di ogni genere attingono a piene mani da correnti non-occidentali), lo possiamo fare anche noi persone normali. Di fatto, siamo liberi ormai (i più) da un complesso di superiorità che ci ha isolati culturalmente per gli ultimi 200 anni: finalmente possiamo prendere sul serio e avvalerci di “voci” provenienti da civiltà non-europee, e questo non è poco! Certo, esistono serie questioni ermeneutiche che vanno ancora dibattute per capire bene come includere elementi “altri” nella propria cultura (un conto è attingere dal proprio, un conto da altre civiltà, è naturale che sia così e che ci voglia perciò uno sforzo ermeneutico specifico quando ci si rivolge a civiltà altre: e il “metodo” di Moravia, i.e. prendere alcuni elementi “altri” e integrarli perfettamente in una trama del tutto “propria”, dotandola in tal modo di maggiore profondità, è certamente intelligente ma non ci possiamo fermare qui), però la “quantità di ossigeno” che possono fornirci le civiltà cosiddette altre è fonte di grande speranza nell’ottica di un rinsaldamento e un rinnovamento dell’identità occidentale (che, personalmente, credo non vada mai né rinnegata né soprattutto tradita, per esempio accettando forme di dogmatismo o autoritarismo culturale — degli ipse dixit di cui non sappiamo bene né chi fosse l’ipse e neppure cosa esattamente dixit, ma che non facciamo una piega a accettare e ripetere –, “barbarie” contro le quali si sono battute vittoriosamente generazioni dei nostri migliori filosofi e artisti).

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