Lo zampino dei commenti nella traduzione dei testi dal sanscrito è una questione veramente grossa, nel senso che moltissime traduzioni appaiono basarsi, ogni volta che c’è un passo un po’ denso e/o problematico, non su uno studio e un’interpretazione diretta del testo, ma accettando l’interpretazione di uno o più commenti, scritti quasi sempre secoli dopo, e in ambienti parecchio diversi da quelli del testo commentato.
Proprio per la distanza (cronologica e culturale) fra i testi “autoriali” (intendo dire produzioni letterarie di grandi autori: scienziati, filosofi o poeti che siano) e i commenti, questi ultimi non offrono di per loro alcuna garanzia né di specifica adesione al significato originario di un dato testo, né di particolare acume o originalità interpretativi: anzi (e lo sanno un po’ tutti gli addetti ai lavori) non di rado i commenti colpiscono per parlare di tutt’altro rispetto al testo che commentano (un famoso commento agli Yogasūtra comincia dicendo pressappoco “visto che gli altri commenti si dilungano su argomenti secondari e non trattano di quelli più importanti, vi è necessità di questo nuovo commento”) e anche per essere molto noiosi e poco illuminanti (ci sono ovviamente eccezioni: ma, quando si ha a che fare con i commenti in sanscrito, capita di leggere pagine e pagine di scarso o nessun interesse per sviscerare il testo commentato.)
Il problema d’altra parte è che spesso i testi in sanscrito sono effettivamente molto densi e complessi (e quindi di problematica interpretazione; e poi sono lunghi e stratificati), e a volte anche enigmatici, per cui la “tentazione”, per i traduttori, di seguire il commento diventa molto forte, soprattutto se la traduzione avviene (come nella maggior parte dei casi) in un contesto accademico, contesto in cui ogni interpretazione personale potrebbe poi risultare sbagliata e quindi costituire una “macchia” nella carriera dello studioso (solo chi ha messo almeno il naso dentro l’ambiente accademico può capire quanto questa paura di essere preso in castagna da qualche collega, che magari basa la sua autorità proprio sulla capacità di notare e, se possibile, “correggere” le imperfezioni di lavori altrui, pesi sugli slanci interpretativi dei singoli accademici, che devono stare sempre attenti a dire sostanzialmente solo, o comunque perlopiù, cose già dette da altri esimi colleghi; da cui lo stallo interpretativo e quindi la sostanziale arretratezza caratteristici dell’accademia, che sembra essere sempre, ad eccezione di singoli e spesso non particolarmente potenti prof., almeno una ventina d’anni indietro alla cultura “vera”, alle idee e ai fenomeni cioè esistenti al di fuori dall’accademia stessa).
D’altronde, anche in contesti di progetti editoriali in cui pagano poco o niente (più probabilmente niente; e a volte deve pagare il traduttore!) è naturale che, invece di scervellarsi in proprio per ore e ore sui passi più difficili e/o densi, il traduttore ricorra, non tanto e solo ai commenti, ma decisamente alle altre traduzioni esistenti, accettandole come unica possibile resa, poiché lo sforzo di interpretare il testo direttamente richiederebbe molto tempo e grande energia (sia chiaro che nei commenti non troviamo quasi mai totali assurdità: quindi si può sempre prendere per buono quel che dice il commento e “risolvere” i propri dubbi, ma il rischio di accontentarsi così facendo di un’interpretazione superficiale o decisamente arbitraria è piuttosto elevato; lo stesso dicasi delle traduzioni).
Del resto, mutatis mutandis, un po’ tutta la cosiddetta indologia soffre di questo problema chiamiamolo di mancanza di genuinità interpretativa, nel senso che è ben noto che i cosiddetti padri fondatori della disciplina si basarono, nella loro “scoperta” della letteratura sanscrita, sulla cooperazione o meglio sulla guida di Pandit tradizionali indiani senza i quali, per quanto eruditi e sapienti fossero gli studiosi occidentali, non avrebbero potuto gestire l’enorme mole di testi (e commenti) con la quale avevano a che fare.
Ma, evidentemente, a loro volta i Pandit tradizionali indiani, da un lato facevano parte di una tradizione specifica che offriva la propria interpretazione (in particolare ha pesato molto la “lente vedantica” su tutto ciò che vedantico non era, con gravi conseguenze sull’interpretazione di filoni quali per esempio buddismo, Yoga e Sāṃkhya per citare solo quel che ho visto coi miei occhi), e nessuna tradizione sembrerebbe risalire a prima del XV secolo (periodo da cui appunto “trionfa” il Vedānta); e d’altro lato, i Pandit tradizionali indiani, pur nella loro autorità, trovandosi in una posizione subalterna al dominatore inglese, si premuravano di dare della civiltà indiana classica un’immagine il più possibile accettabile “al padrone”: è giocoforza che tutto ciò abbia pesato e in parte pesi sulla vis interpretativa dell’indologia, e quindi sui risultati complessivi che essa ha saputo raggiungere in termini di impatto culturale generale, fuori cioè dalla ristretta cerchia degli addetti ai lavori.
Ma allora che si fa? Se cioè da un lato la letteratura sanscrita è troppo vasta e complessa per essere affrontata senza “guide” (fonti secondarie), e d’altro lato le fonti secondarie (traduzioni e interpretazioni) molto spesso non si basano sui testi in quanto tali, ma sui testi mediati da commenti molto distanti dai testi stessi, o sulle traduzioni di questi basate sui commenti, che rischiano di far passare in secondo piano o addirittura occultare quanto di interessante i testi possono offrire, dico che si fa, si getta tutto a mare e si ricomincia da zero?
Ovviamente no, nessuno può permettersi di leggere tutto in originale sanscrito senza l’aiuto di commenti o traduzioni (spero che a questo punto sia chiaro che commenti e traduzioni sono “una cosa”, i testi originali “un’altra cosa”), quindi ben vengano vecchie traduzioni in inglese (e meno vecchie che da queste troppo spesso copiano), che sostanzialmente riproducono i commenti (da cui il fenomeno, altrimenti inspiegabile, di svariate traduzioni che interpretano allo stesso modo passi che oggettivamente sono interpretabili in più modi, alcuni dei quali almeno apparentemente più soddisfacenti, o come minimo altrettanto soddisfacenti, di quelli messi in luce dai commenti), ma, quando si leggono tali “vecchie” traduzioni dal sanscrito, bisogna stare (questo è il mio consiglio) molto attenti sia a tutto ciò che sembra strano o poco soddisfacente (per esempio: illogico o stravagante) poiché potrebbe dipendere dall’interpretazione che del passo offre il commento e quindi è necessario andarsi a vedere l’originale sanscrito e provare a interpretarlo ex-novo; sia bisogna stare molto attenti a ciò che sembra molto interessante e/o dirimente: è necessario guardare l’originale per verificare che effettivamente sia farina del sacco del testo e non del commento e/o del traduttore che si sforzano di rendere il testo “più interessante” o “più coerente”.
E soprattutto bisogna scordarsi una volta per tutte di dominarla la letteratura sanscrita! La si può e la si deve, e bisogna farlo con tutti i mezzi intellettivi e culturali a propria disposizione (senza risparmiarsi intendo dire) indagare, studiare, amare, anche odiare (di alcuni testi in sanscrito non si capisce nulla, altri sono terribilmente noiosi, molti sono i testi che grondano di ideologia maschile dominante, ecc.), se ne possono e se ne devono trarre giovamenti (progressi) di varia natura, ma dominarla è una cosa che non ci compete e che non siamo in grado di fare (come comunità di studiosi ancora prima che come singoli).
E questo non tanto perché la letteratura sanscrita è sconfinata e spesso troppo complessa per potercisi muovere a proprio agio (personalmente, mi vien da ridere a pensare a qualcuno che affermi: “Sì, io mi muovo a mio agio nella letteratura sanscrita”) ma già solo perché il sanscrito ti può “fregare” a ogni piè sospinto, e tu capisci una cosa per un’altra, e sei convinto che il significato sia uno fino a quando ti poni la domanda: “ma non potrebbe essere anche un altro?” e ti accorgi che sì, potrebbe anche essere un altro, e sei tu che devi decidere in base alla tua interpretazione (che significa molto spesso: in base a quel che “speri”, finché possibile, che il testo significhi), e assumertene la responsabilità (dovrebbe del resto essere questo il bello, oltre che il difficile, di tradurre dal sanscrito).