Tutti (mi sembrerebbe strano il contrario) concordano sul fatto che il Buddha sia il primo “punto fermo” nella storia del pensiero indiano, nel senso che al Buddha si può assegnare una data sostanzialmente certa (V a.C.) mentre al Veda in generale, e alle upaniṣad in particolare (che sono la porzione più “filosofica” del Veda) no.
Per quanto riguarda le upaniṣad, di sicuro c’è solo che esse sono posteriori sia agli inni del Ṛgveda — cioè alla cosiddetta parte mantraica dei Veda (solo l’Atharvaveda, certamente per altro anch’esso pre-buddista, ha mantra originali, cioè non presenti nel Ṛgveda, ma il Sāmaveda e lo Yajurveda prendono i loro mantra, almeno per circa il 90%, dal Ṛgveda) — sia ai brāhmaṇa, la parte dei Veda dedicata all’esegesi del rituale (che rivela cioè da dove origina il sacrificio, come e perché funzionano i diversi rituali, quando vanno fatti, cosa rappresentano i vari utensili in essi utilizzati, ecc.).
D’altra parte è altrettanto sicuro che le upaniṣad si possano distinguere (e questo è stato sempre fatto) in pre-buddiste e post-buddiste.
E’ però anche evidente (basta sfogliarne una qualunque traduzione; voglio dire: non servono anni di studio di sanscrito per accorgersene) che le upaniṣad non sono per nulla dei “testi”, se ci atteniamo al senso che normalmente diamo noi al termine testo, ovvero uno scritto originato da un autore o da una cerchia di autori, che si sviluppi secondo una “direzione” che dall’inizio (del testo) conduca alla fine (del testo) e possibilmente (se non stiamo parlando di avanguardia novecentesca) che possieda una qualche forma di unità di senso, se non proprio di luogo, spazio e tempo.
No, le upaniṣad non hanno tutto questo (perché non hanno mai voluto averlo, non perché gli manchi qualcosa, sia chiaro) e soprattutto alcune, come per esempio la Maitryupaniṣad, sono, sì, di redazione chiaramente post-buddista, perché si trovano in esse passi che riecheggiano con chiarezza dei concetti e delle immagini buddiste, ma, proprio perché non sono testi (secondo quanto ho appena detto), studiandole a volte uno si trova a pensare: “Ok, questa upaniṣad è considerata post-buddista, ma chi lo dice che questo specifico concetto espresso in questa specifica affermazione sia post-buddista e non invece pre-buddista, e anzi che possa fare luce su come il Buddha sia giunto ad alcuni fondamenti della sua innovativa visione filosofica?” (la visione filosofica del Buddha è profondamente innovativa, in particolare perché, primo in India e unico — che io sappia — in tutto il mondo antico, svuota il reale di contenuto ontologico: come è ben noto, per il Buddha il reale è vuoto d’essere, è suñña, in Pāli).
Per esempio in Maitryupaniṣad, VI, 34 (ripeto: è evidente che la redazione di questa specifica upaniṣad sia post-buddista) si trova questa affermazione:
yaccittas tanmayo bhavati guhyam etat sanātanam
(traducibile all’incirca con:)
“Uno diventa quello che ha nella sua mente: questo è l’eterno mistero”.
Ora, è questa un’affermazione pre-buddista, e quindi alla base del concetto di dhamma (per il quale si vedano i primi due versi del dhammapada per esempio qui Dal Dhammapada) oppure è post-buddista, e quindi è solo una parziale rimasticatura del concetto di dhamma buddista?
Personalmente propendo per la prima ipotesi, in barba al fatto che la Maitryupaniṣad è di sicura redazione post-buddista (penso anche che si dovrebbe cercare di evitare di chiamare le upaniṣad “testi”: le upaniṣad sono upaniṣad, punto e basta, e in occidente non abbiamo, letterariamente, nulla di equivalente, il che, evidentemente, le rende ancora più affascinanti e preziose).
Pre-buddista o post-buddista?
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