In un interessante passo (5.1.17-5.1.42) del Kāmasūtra di Vātsyāyana, il famoso testo sull’Eros dell’India antica (ca III d.C), l’autore elenca tutti i motivi per cui una donna, pur desiderata, può rifiutare di concedersi. L’elenco è molto eterogeneo, includendo perlopiù motivazioni personali di lei, ed è molto interessante nella misura in cui vuole spiegare come mai un qualcosa di desiderabile, e ricercato da tutti (è questo l’assunto teorico di fondo di Vātsyāyana sull’Eros), può non concretizzarsi, nonostante l’ingrediente principale, cioè il desiderio erotico di lui, ci sia.
Infatti nella visione di Vātsyāyana, e dell’India antica in generale (con le dovute eccezioni che un oceano testuale come quello sanscrito sempre comporta), la donna è la regina del Kāma, cioè dell’Eros, e quindi se in effetti l’uomo la desidera veramente, noi diremmo se ne è veramente innamorato, lei tendenzialmente accetta di essere amata.
Un occhio occidentale non può non cogliere qui un qualcosa di fastidiosamente sessista, e certamente a ragione, se con sessista si intende una visione che attribuisce ai due generi, maschile e femminile, psicologie e dinamiche sociali diverse. Ma da un lato bisogna tenere presente che l’India classica vede nel rispetto e nella conservazione delle differenze psicologiche e sociali l’unica possibilità per realizzare una felicità individuale e una realizzazione collettiva (il cosiddetto dharma), e d’altro lato bisogna ricordare che il Kāma, che in particolare è l’Eros, ma più in generale è il lato gradevole dell’esistenza, è unanimemente considerato il puruṣārtha, o scopo della vita, principale degli esseri umani.
E questo non solo, ovviamente, perché senza Eros non c’è procreazione, ma proprio perché la dimensione della fruizione piacevole, o bhoga in sanscrito, dell’esistenza è considerata essenziale per tutti coloro che conducono una vita non ascetica, nel senso proprio che sarebbe “peccato” non perseguirla, e non perseguirla nel migliore dei modi. Ovviamente il termine peccato è da mettere fra virgolette, ma d’altra parte il menzionato dharma, che è principalmente l’adesione attiva a un tutto sociale, necessita di individui appagati, meglio ancora felici (che conoscano cioè momenti di felicità), e appunto il Kāma è un ingrediente necessario per la realizzazione di chiunque, in quanto primo dei famosi quattro puruṣārtha o scopi dell’esistenza di ogni essere umano (gli altri essendo l’affermazione sociale, o artha in sanscrito, l’intima adesione a dei valori codificati e condivisi, o dharma in sanscrito, e la trascendenza assoluta, o mokṣa in sanscrito).
Ora, dire che la donna è il necessario tramite per la realizzazione del puruṣārtha kāma, e, di più, dire che, per quanto riguarda la donna, è realizzando il puruṣārtha kāma che tutti gli altri puruṣārtha sono ottenuti, facendo cioè della donna la regina del Kāma, si è quanto di più lontani dall’asserirne un’inferiorità rispetto all’uomo, o una sua passività rispetto al desiderio erotico: certo, se ne fa un essere diverso dal maschio, ma con un qualcosa in più, e un qualcosa di imprescindibile, per la realizzazione del principale motivo per cui siamo al mondo, cioè riuscire a stare bene, godersi la vita, e così facendo essere elementi positivi per il mantenimento del dharma, cioè di una società giusta in cui tutti possono realizzarsi, attraverso il raggiungimento degli altri scopi dell’esistenza (si noti che in una prima formulazione della menzionata teoria dei puruṣārtha non era presente il puruṣārtha mokṣa, poiché appunto la trascendenza totale mal, o comunque difficilmente, si accorda con il vivere nella società rispettando leggi e tradizioni).
Chiaramente Vātsyāyana spiega che il modo lecito per eccellenza di realizzare il puruṣārtha kāma è quello di sposarsi con una donna adatta (e esiste anche tutta un’interessante seppur per noi sorprendente — ma neanche più di tanto — disquisizione sulle diverse caratteristiche fisiche degli organi genitali e sui diversi temperamenti erotici, sempre al fine di indicare la combinazione migliore per realizzare pienamente il puruṣārtha kāma), una donna adatta che sia fedele e a cui essere fedele. Però, poiché (è questo un famosissimo snodo del discorso di Vātsyāyana) di desiderio erotico non soddisfatto si può morire, allora, dato che la vita è il bene più prezioso, anche a livello sociale, è lecito tentare in tutti i modi di soddisfare il proprio desiderio erotico, anche con una donna che non sia la propria moglie (ovviamente l’autore fa una serie di eccezioni a questa regola, che includono per esempio la moglie del maestro, che in nessun caso può essere oggetto di approcci), e per questo esiste il Kāmasūtra, e in generale il Kāmaśāstra, cioè la scienza dell’Eros, poiché se è lecito tentare, allora è bene sapere tutti i “trucchi del mestiere” per avere successo e per soddisfare appieno la donna o l’uomo con cui si tenti un approccio erotico.
Quindi il seguente elenco dei possibili motivi del rifiuto di una donna va letto in un quadro di questo genere, che dobbiamo ammettere essere francamente diverso dal nostro, per cui io credo sia necessario resistere all’impulso di etichettarlo come sessista, e al contrario cercare di leggere in esso un’interessante forma di studio della psicologia femminile, e maschile nella misura in cui alla fine dell’elenco (quindi subito dopo il passo qui tradotto) Vātsyāyana aggiunge che l’uomo, appena capisce che il rifiuto è dovuto a uno dei motivi elencati, deve affrontare di petto la faccenda e recidere di netto il problema (senza peraltro spiegare esattamente come, anche perché altrimenti dovrebbe scrivere decine di pagine a riguardo, immaginando e illustrando casi particolari, cosa che in generale i testi indiani non fanno mai, eccezion fatta per i miti e le storie, che infatti si sviluppano su centinaia e centinaia di pagine: ma il Kāmasūtra, come ogni sūtra, dev’essere conciso, essendo proprio la concisione la caratteristica formale del genere sūtra).
Il passo in questione è un secco elenco, per cui non è facile renderlo in traduzione, anche perché noi non siamo tanto abituati agli elenchi (se non quelli della spesa), però ho voluto lasciare la forma che ha nell’originale, cioè una serie di frasi indipendenti, perché ne emerge il carattere descrittivo generale di ogni possibile rifiuto femminile che prescinde completamente dalla volontà di descrivere una donna o una situazione in particolare: sono fattori che possono almeno in parte sommarsi o essere invece singolarmente la causa di un rifiuto.
Anche se forse questo è l’aspetto più difficile del passo, un elenco implica sicuramente una forma di logica interna (almeno se è un elenco ordinato, come mi sento di dire che questo è), e non sembra impossibile, dato il taglio pragmatico dell’opera e data la menzionata indicazione per il maschio di recidere d’un colpo tali possibili cause del rifiuto della donna, non sembra impossibile che l’ordine riveli una difficoltà crescente della situazione in cui si trova il maschio: in questo senso il primo fattore, l’amore per il legittimo marito, deve essere considerato di gran lunga meno problematico dell’ultimo, il fatto di farne una questione morale.
Ho pensato di alternare il sanscrito alla traduzione, a beneficio di chi sa il sanscrito, e anche per imporre a tutti una lettura lenta, poiché appunto qui il testo ha quasi valore di formula matematica, e non ha senso leggerlo “in fretta”.
N.B. Fra parentesi quadre, integrazioni al testo; fra parentesi tonde, mie riflessioni.
5.1.17 tatra vyāvartanakāraṇāni.
Ecco i motivi del ritrarsi [di una donna di fronte ad un approccio].
5.1.18 patyāv anurāgaḥ.
L’amore per il marito.
5.1.19 apatyāpekṣā.
Il prendersi cura dei figli.
5.1.20 atikrāntavayastvam.
L’esser passata la gioventù (di lei? di lui? Io propendo per: “di lei”)
5.1.21 duḥkhābhibhavaḥ.
L’esser sopraffatta da un dolore (che non c’entra con l’approccio amoroso).
5.1.22 virahānupalambhaḥ.
La non-percezione della separazione [intercorsa?] (Cinzia Pieruccini in “Kāmasūtra, Venezia, 1990” traduce: “Le riesce impossibile restare sola” Ma viraha è quasi sempre “separazione fra amanti” e anupalambha solo “non-percezione”; non escludo che ci sia un problema testuale).
5.1.23 avajñayopamantrayata iti krodhaḥ.
Ira al pensiero di esser stata invitata per mancanza di rispetto.
5.1.24 apratarkya iti saṃkalpavarjanam.
Rinuncia all’idea [di accondiscendere] poiché pensa: “Non è comprensibile [nei sentimenti]” (cioè lei non capisce che tipo sia lui e quindi preferisce lasciar stare).
5.1.25 gamiṣyatīty anāyatir anyatra prasaktamatir iti ca.
E [rinuncia all’idea] poiché pensa: “Se ne andrà via”. E: “Non c’è un futuro con lui: il suo cuore è altrove”.
5.1.26 asaṃvṛtākāra ity udvegaḥ.
Agitazione perché palesa le sue intenzioni dal volto (quindi è una situazione compromettente).
5.1.27 mitreṣu nisṛṣtabhāva iti teṣv apekṣā.
Cura per il rispetto degli amici, poiché pensa: “Ha rivelato loro il suo sentimento” (cioè non vuole fare una brutta figura con i propri amici).
5.1.28 śuṣkābhiyogīty āśaṅkā.
Paura poiché pensa: “E’ un amante fasullo”.
5.1.29 tejasvīti sādhvasam.
Terrore poiché pensa: “E’ un eroe” (quindi probabilmente non vivrà a lungo).
5.1.30 caṇḍavegaḥ samartho veti bhayaṃ mṛgyāḥ.
Paura della “Cerbiatta” [tipo di donna minuta e delicata] che pensa: “E’ un uomo molto impetuoso oppure molto potente”.
5.1.31 nāgarakaḥ kalāsu vicakṣaṇa iti vrīḍā.
Vergogna poiché pensa: “E’ un raffinato cittadino esperto nelle 64 arti” (farebbe la figura della sprovveduta).
5.1.32 sakhitvenopacarita iti ca.
E [vergogna poiché pensa]: “L’ho frequentato in quanto amico”.
5.1.33 adeśakālajña ity asūyā.
Indignazione poiché pensa: “Non considera il luogo e il momento”.
5.1.34 paribhavasthānam ity abahumānaḥ.
Perdita di dignità poiché pensa: “Mi umilierei con lui”.
5.1.35 ākārito ‘pi nāvabudhyata ity avajñā.
Disprezzo poiché pensa: “Benché esortato non se ne avvede”.
5.1.36 śaso mandavega iti ca hastinyāḥ.
E [disprezzo] della Elefantessa [tipo di donna] poiché pensa: “E’ un Coniglio [tipo di uomo] poco appassionato”
5.1.37 matto ‘sya mā bhūd aniṣṭam ity anukampā.
Compassione poiché pensa: “Non abbia mai un dolore a causa mia”.
5.1.38 ātmani doṣadarśanān nirvedaḥ.
Delusione per aver visto dei difetti propri [potrebbe anche significare “di lui”].
5.1.39 viditā satī svajanabahiṣkṛtā bhaviṣyāmīti bhayam.
Paura poiché pensa: “Se sarò scoperta verrò espulsa dalla famiglia”.
5.1.40 palita ity anādaraḥ.
Mancanza di considerazione poiché pensa: “Ha i capelli bianchi”.
5.1.41 patyā prayuktaḥ parīkṣata iti vimarśaḥ.
Il sospetto che stia indagando per conto del marito (cosa non s’inventano i mariti!).
5.1.42 dharmāpekṣā ceti.
E infine il rispetto della Legge.
(kAmasUtra, 5.1.17-5.1.42)