L’arthaśāstra di Kauṭilya è un testo molto importante e interessante. In uno stile sintetico, spesso quasi lapidario, Kauṭilya descrive, in questo testo sicuramente antico ma di datazione incerta (si oscilla dal III a.C. al III d.C.), lo stato ideale, con particolare attenzione alla figura del re e dei ministri, all’economia, alla giustizia e alla politica estera (guerra, difesa, strategie espansive).
Nel passo tradotto di seguito (1.3.5-1.3.13) si affronta il tema dello svadharma o dei compiti specifici dei diversi “gruppi sociali” (varṇa) e delle diverse “condizioni di vita” (āśrama).
Ecco la traduzione, seguita da alcune considerazioni (e poi dal testo in sanscrito)
“I doveri specifici (svadharma) del sacerdote (brāhmaṇa) sono lo studio, l’insegnamento, sacrificare per sé, compiere sacrifici per altri, donare e ricevere doni.
Del guerriero (kṣatriya) [i doveri specifici (svadharma) sono] lo studio, sacrificare per sé, donare, fare il soldato di professione e proteggere gli esseri viventi.
Del produttore di ricchezza (vaiśya) [i doveri specifici (svadharma) sono] lo studio, sacrificare per sé, donare, l’agricoltura e la pastorizia, e il commercio.
Del lavoratore dipendente (śūdra) [i doveri specifici (svadharma) sono] guadagnarsi da vivere mettendosi al servizio di un appartenente alle classi superiori, oppure fare l’artigiano o l’attore.
Del capo-famiglia (gṛhastha) [i doveri specifici (svadharma) sono] sostentarsi facendo un’attività appropriata al suo rango, sposarsi con una donna di famiglia compatibile alla propria ma di un clan diverso, accoppiarsi nel periodo fertile, venerare gli dei, gli antenati e gli ospiti, essere generoso con chi è alle sue dipendenze e mangiare quel che resta dopo aver nutrito i familiari e gli ospiti.
Di chi persegue vita spirituale (brahmacārin) [i doveri specifici (svadharma) sono] lo studio dei testi sacri, il sacrificio nel fuoco e le abluzioni sacre, il vivere di elemosina, la devozione per tutta la vita nei confronti del maestro e, quando non c’è più, nei confronti del suo figlio maggiore o di sua moglie.
Di chi si ritira nella foresta (vānaprastha) [i doveri specifici (svadharma) sono] l’astinenza sessuale, il dormire in terra, non pettinarsi i capelli e vestirsi di una pelle di capra, il sacrificio nel fuoco e le abluzioni sacre, venerare gli dei, gli antenati e gli ospiti, e il nutrirsi dei prodotti della foresta.
Del rinunciante (parivrājaka) [i doveri specifici (svadharma) sono] sconfiggere i sensi, non dedicarsi ad alcuna attività, non possedere nulla, vivere in solitudine, vivere di elemosina, cambiare sempre posto o vivere nella foresta, e la purezza interiore e esteriore.
Di tutti quanti (sarva) [i doveri specifici (svadharma) sono] la rinuncia alla violenza (ahiṃsā), la veridicità (satyam), la purezza (śauca), l’assenza di invidia (anasūya), l’assenza di disumanità (ānṛśaṃsya) e la sopportazione (kṣamā).” (Arthaśāstra 1.3.5-1.3.13)
Come tipico degli śāstra, cioè dei trattati, colpisce la perentorietà degli enunciati, privi di qualunque giustificazione delle affermazioni fatte: è come se si dicesse “le cose stanno così: punto e basta”.
I quattro varṇa menzionati (brāhmaṇa, kṣatriya, vaiśya e śūdra) sono talmente famosi che risulta difficile tradurli in italiano: si è scelto “sacerdote, guerriero, produttore di ricchezza e lavoratore dipendente” ma è chiaro che quelli a cui si riferisce Kauṭilya sono gruppi sociali ampi ed anche, almeno in parte, eterogenei.
Se guardiamo ai brāhmaṇa, possono esistere certamente, fra brāhmaṇa e brāhmaṇa, enormi disparità di tipo sociale: dai brāhmaṇa che stanno a corte, alcuni anche consiglieri del re e proprietari — grazie a donazioni dello stesso re — di interi villaggi (esistono innumerervoli iscrizioni che testimoniano di tali donazioni da parte del re a singoli brāhmaṇa), a influenti brāhmaṇa di città, coltissimi e responsabili dell’educazione dei rampolli della nobiltà cittadina o impegnati nelle questioni legali, fino a brāhmaṇa indigenti, che abitano le parti povere delle città o le campagne. A fronte dell’estrema varietà che doveva esserci nella realtà, si può apprezzare ancor di più la modellizzazione che effettua Kauṭilya: è come se la sua definizione individuasse i requisiti che in ogni caso distinguevano il brāhmaṇa, fra cui ovviamente spiccano, in quanto assenti negli altri gruppi sociali, la funzione di educatori, quella di esecutori dei rituali per altri e quella di destinatari di doni (il dono al brāhmaṇa è considerato purificante, ecco perché i re donavano loro anche interi villaggi).
Quando guardiamo al gruppo sociale denominato kṣatriya, la varietà è forse anche maggiore: lo stesso re è uno kṣatriya (almeno in teoria: e se non lo è — per esempio nel caso in cui il potere viene preso con una rivolta o se si tratta di un dominatore straniero; entrambi casi storicamente verificatisi più volte — il re verrà “consacrato” kṣatriya, in un rituale ad hoc, da un brāhmaṇa), e kṣatriya sono sia i nobili che appoggiano il re che quelli che tramano per rovesciarlo. Come per i brāhmaṇa, esistono sia kṣatriya influenti e altolocati, sia kṣatriya che si guadagnano da vivere come soldati semplici, come mercenari o guardie impiegate in ruoli minoritari e/o in zone geograficamente remote. Di nuovo, capiamo quel che rende uno kṣatriya tale, osservando qual è la caratteristica ad essi esclusivamente affidata, ovvero la difesa degli esseri viventi: gli kṣatriya sono dunque il braccio armato dello stato, in una società con ogni probabilità ampiamente disarmata.
Il gruppo sociale denominato vaiśya è certamente il più eterogeneo comprendendo tutti i produttori di ricchezza, sia legati alla terra (quindi agricoltori e allevatori) che legati al commercio. Rappresentano evidentemente il gruppo sociale più importante per l’economia dello stato, poiché sono loro a pagare le tasse. Interessante che sia gli kṣatriya che i vaiśya (oltre che ovviamente i brāhmaṇa) hanno fra i loro obblighi quello di studiare, kṣatriya e vaiśya probabilmente sotto la guida di brāhmaṇa (che appunto sono gli unici ad avere fra le loro funzioni quella di insegnare).
Quanto ai compiti degli śūdra, va detto che il termine sanscrito tradotto con “mettersi al servizio” è śuśrūṣā, formato sul desiderativo della radice śru che significa “ascoltare, imparare”, quindi è chiaro che può, e dovrebbe, sussistere fra lo śūdra e l’appartenente alle classi superiore a cui quello presta servizio, un passaggio di conoscenza, che sarà tanto maggiore quanto maggiore è l’intenzione di imparare dello śūdra, che potrà così, attraverso l’acquisizione di conoscenza, emanciparsi dalla condizione di subordinazione in cui si trova: è chiaro dunque che quella descritta da Kauṭilya non è una realtà riconducibile al concetto di casta (condizione per definizione ereditaria e non modificabile). Kauṭilya in effetti ci descrive le funzioni sociali necessarie per il funzionamento dello stato ideale, dove è verosimile che la conoscenza potesse funzionare da “ascensore sociale” e trasformare, almeno in linea di principio, uno śūdra in un appartenente, di fatto se non di diritto, ad uno dei gruppi sociali (varṇa) superiori (e, si può facilmente immaginare, anche trasformare, attraverso lo studio, e cioè nuovamente l’acquisizione di conoscenza, uno kṣatriya in un vaiśya o un vaiśya in uno kṣatriya; diverso è il discorso dei brāhmaṇa che dovendo eseguire i rituali per gli altri e dovendo insegnare sembrerebbero essere un gruppo sociale da cui si può solo decadere — appunto non rispettandone i compiti specifici — ma a cui non si può accedere).
Conferma di questa fluidità sociale almeno parziale, sembra venire dal fatto che quando Kauṭilya passa ad analizzare i compiti dei diversi āśrama, cioè delle diverse possibili condizioni di vita, non si fa più menzione dei quattro varṇa o gruppi sociali: tutti possono essere o “accasati”, quindi in un centro abitato e con una famiglia, oppure perseguire vita spirituale, oppure vivere nella foresta, oppure essere dei rinuncianti completi. Forse solo i brahmacārin, cioè coloro che perseguono vita spirituale, devono appartenere ai tre gruppi sociali superiori, in quanto devono dedicarsi allo studio dei testi sacri: ma la cosa non è affatto certa, poiché a ben vedere il termine sanscrito utilizzato è svādhyāya che in realtà significa “uno studio proprio, autonomo”, e seppure normalmente si riferisce ai testi sacri, potrebbe anche riferirsi a testi “settari” e non per forza ai testi vedici (proibiti agli śūdra: ma di nuovo, la cosa non è esente da controversie visto che nelle upaniṣad — parte integrante del Veda — sono menzionati saggi non appartenenti alle tre classi superiori).
Anche la conclusione del passo, che menziona compiti cui tutti senza distinzione di gruppo o condizione sociale devono attenersi (di cui per altro non si può non notare il sapore prettamente buddista e l’alto livello di civiltà), sembrerebbe escludere, almeno per la fase antica, una rigida divisione in caste, suggerendo piuttosto una società molto più unita, solidale e fluida di quella che solitamente associamo all’India.
Ecco il testo sanscrito tradotto nel presente post:
svadharmo brāhmaṇasya adhyayanam adhyāpanaṃ yajanaṃ yājanaṃ dānaṃ pratigrahaś ca //
kṣatriyasyādhyayanaṃ yajanaṃ dānaṃ śastrājīvo bhūtarakṣaṇaṃ ca //
vaiśyasyādhyayanaṃ yajanaṃ dānaṃ kṛṣipāśupālye vaṇijyā ca //
śūdrasya dvijātiśuśrūṣāvārttā kārukuśīlavakarma ca //
gṛhasthasya svadharmājīvas tulyair asamānaṛṣibhir vaivāhyam ṛtugāmitvaṃ devapitratithipūjā bhṛtyeṣu tyāgaḥ śeṣabhojanaṃ ca //
brahmacāriṇaḥ svādhyāyo agnikāryābhiṣekau bhaikṣavratitvam ācārye prāṇāntikī vṛttis tadabhāve guruputre sabrahmacāriṇi vā //
vānaprasthasya brahmacaryaṃ bhūmau śayyā jaṭājinadhāraṇam agnihotrābhiṣekau devatāpitratithipūjā vanyaś cāhāraḥ //
parivrājakasya jitendriyatvam anārambho niṣkiṃcanatvaṃ saṅgatyāgo bhaikṣavratam anekatrāraṇye ca vāso bāhyābhyantaraṃ ca śaucam //
sarveṣām ahiṃsā satyaṃ śaucam anasūya ānṛśaṃsyaṃ kṣamā ca // (Arthaśāstra, 1.3.5-1.3.13)