Non mi stanco mai di ricordare ai miei allievi che la linguistica moderna è nata con la scoperta del sanscrito, checché ne dica Michel Foucaoult nel suo memorabile Les mots et les Choses, il quale giustamente mette in luce la relazione imprescindibile fra l’apparire di una nuova conoscenza o pratica sociale, e un “vuoto” culturale o politico che si è venuto a creare (è l’assioma della famosa “archeologia del sapere” di cui lui fu inventore e massimo esperto), vuoto senza il quale non può prendere corpo la novità culturale o politico-sociale presa in esame.
Foucault del resto fa espressa menzione della relazione fra lo sviluppo della linguistica e la “scoperta”, ad essa immediatamente precedente, del sanscrito da parte di William Jones, contestando appunto che possa essere vista come causa necessaria e sufficiente, e indicando piuttosto il “vero” motore della nascita della linguistica, nella coeva e già ben stabilita tendenza a sezionare tutto il reale, per sottrarlo a qualunque dinamica ad esso inerente a prescindere dalle parti che lo compongono, riconducendo così tutto a un meccanismo di parti analizzabili.
Certo che è così, la linguistica nella sua fase iniziale e in parte ancora adesso è una scienza profondamente analitica, come tutte quelle ad essa coeve: ma sta di fatto che i grammatici indiano-antichi, più di duemila anni prima di De Saussure, avevano condotto un’indagine approfondita, che, seppur partendo da archeologie del sapere e esprimendo stili gnoseologici completamente diversi (per certi versi anche antitetici), ha saputo mettere in luce i concetti di radice, suffisso, apofonia, prefisso, tema, terminazione nominale e verbale, caso, particella, frase, periodo, portata semantica, referente, radicamento del significato nell’intenzione del parlante, necessità di una pre-comprensione, importanza del non detto, esistenza del non-dicibile, funzione di segno delle parole, ecc.
E’ davvero difficile, se è possibile, trovare un argomento, trattato dalla moderna scienza linguistica, che non sia stato oggetto di indagine in ambito indiano-antico e con risultati altrettanto importanti e chiari di quelli raggiunti dalla linguistica occidentale (eccezion fatta evidentemente per la linguistica comparata che si basa sull’osservazione congiunta di latino, greco e sanscrito).
Ma è proprio prendendo molto sul serio quel che dice Foucault sulla relazione fra scoperta del sanscrito e nascita della linguistica moderna (prima della quale, val la pena ricordarlo, l’occidente linguisticamente era, in più di un senso, fermo al mito della Torre di Babele), e cogliendone l’enorme importanza per capire “da dentro” i limiti della stessa linguistica moderna (e del pensiero positivista in generale, nel solco del quale ci troviamo, nonostante tutto, ancora); è proprio capendo, con Foucault, quanto le conoscenze rispondano a forze completamente estranee alle conoscenze stesse, che si può cogliere l’importanza notevole dello studio del sanscrito per noi oggi.
Entrare nel “regime linguistico” del sanscrito — cioè studiare la sua grammatica — comporta una pratica linguistica, che pur ruotando sulle stesse fondamentali conoscenze della linguistica moderna (che anzi ha attinto dal sanscrito a piene mani), parte da presupposti completamente diversi, che nulla hanno a che fare col meccanicismo, ma che hanno invece a che fare con concetti quali la ricerca di una purificazione del pensiero (e, di conseguenza, del pensante), e la ricerca di un’espressione verbale il più possibile cosciente e per questo potente, nella convinzione, mai così forte come nel contesto indiano-antico, che le parole possano avere un impatto concreto sulla realtà interiore ed esteriore, in termini di trasformazione in meglio di entrambe.
Eccellente!