Il sanscrito è una lingua antica appartenente alla famiglia delle lingue indo-europee, famiglia cui appartengono la maggior parte delle lingue europee, le lingue slave, il farsi (lingua dell’Iran) e molte lingue indiane (ad eccezione delle lingue del Sud appartenenti a famiglie diverse).
La caratteristica unica del sanscrito è quella di non essere una lingua naturale (come il latino e il greco, anche loro lingue antiche di famiglia indo-europea) ma una lingua “grammaticale”.
Il sanscrito cosiddetto classico, quello con cui l’India brahmanica ha prodotto, codificato e trasmesso tutto il suo sapere per più di 1500 anni, si fonda sull’opera di tre grammatici antichi, ovvero Panini (IV a.C.), Katyayana (II a.C.) e Patanjali (I a.C.), i cui sforzi congiunti portarono ad una descrizione completa e minuziosa del sanscrito.
Per questo il sanscrito pur essendo stato utilizzato per quindici secoli in un’area geografica vastissima (tutto il subcontinente indiano e parte delle terre che si affacciano sull’Oceano Indiano) e per trattare di qualunque argomento, è rimasto sempre se stesso (pur con profonde differenze stilistiche e lessicali a seconda degli ambiti letterari): perché viene prima, e una volta per tutte, la sua grammatica, completa e perfetta in quanto capace di analizzare ogni meccanismo linguistico lasciando al contempo la possibilità alla lingua di essere produttiva sul piano semantico senza per questo cambiare la sua struttura profonda, in modo tale da potersi adeguare alla trasformazione del pensiero e della cultura rimanendo essa stessa fuori da ogni cambiamento.
Ma come può la grammatica sanscrita precedere il sanscrito stesso?
Il punto è che il più antico dei grammatici menzionati, Panini, su cui l’opera degli altri si basa (nel senso che Katyayana aggiunge alcune osservazioni grammaticali, spesso in polemica con Panini, che Patanjali, abbracciando perlopiù le tesi di Panini, commenta a sua volta), si dedica in realtà allo studio della lingua che noi chiamiamo vedica (e che lui chiama “i versi”) e alla definizione della lingua corretta (che lui chiama “parlata”), elevata, appannaggio della classe sacerdotale.
Nell’opera di Panini si sviscerano i meccanismi grammaticali fondamentali del vedico (che sono gli stessi del sanscrito), quindi principalmente l’utilizzo dei casi (concetti di soggetto, oggetto e complementi vari), i concetti di sostantivo aggettivo e pronome, i generi e i numeri, la coniugazione verbale (concetti di persona, modo, tempo, voce, ecc.) e l’utilizzo degli indeclinabili (particelle, avverbi, forme verbali non coniugate).
Ma oltre a ciò (e in questo sta la vera specificità del sanscrito) la grammatica di Panini definisce le regole morfologiche “dietro” alla formazione delle parole, identificando i concetti di radice, suffisso, terminazione e definendo le regole (anche da un punto di vista semantico, oltre che da un punto di vista fonetico) con cui tali elementi minimi della parola agiscono e si uniscono fra loro.
Furono quindi Katyayana e Patanjali che chiarendo e ampliando il lavoro di Panini, posero le basi per un affrancamento (avvenuto a partire dai primi secoli d.C.) del sanscrito, sia da un utilizzo limitato agli ambienti sacerdotali, poiché il sanscrito si diffuse presso tutte le corti dal IV secolo dopo Cristo, sia dalle complessità linguistiche della lingua dei Veda.
E’ la natura di lingua agile e perfetta perché interamente “contenuta” nella sua grammatica, e la natura “cristallina” della sua morfologia, che permise al sanscrito di diventare la lingua pan-indiana per tutto il primo millennio e per gran parte del secondo millennio d.C.
Dopo Patanjali è sanscrito solo quel che rispetta le regole definite dall’opera dei tre grammatici, che verrà studiata e ristudiata (nonché riassunta in opere più snelle) per sfruttare tutte le potenzialità che le sue regole offrono.
Sempre più il sanscrito diventerà quindi lingua rimossa dalle lingue naturali (da notare che il sanscrito fu utilizzato anche in Vietnam e Indonesia, come testimoniano le molte iscrizioni in sanscrito colà rinvenute), diventando lingua di cultura e di potere, depositaria del sapere tradizionale e “ufficiale”.