Ci vuole un certo ritmo, un certo passo, una volta che si comincia a studiare la grammatica di base del sanscrito, poiché la mente, cioè l’organo adibito ad impararla, è un po’ come uno stomaco: quando assaggia un cibo nuovo, ci impiega un po’ a prenderci gusto, diventando però, a forza di mangiarlo, sempre più capace e veloce ad assimilarlo.
In generale lo studio, come anche la lettura di poesie e di romanzi, è, per la mente, il cibo qualitativamente migliore, quello che più di ogni altro giova al suo sviluppo, rendendola più potente e raffinata. In verità, lo stomaco-mente, a differenza dello stomaco vero e proprio, può anche non mangiare mai, o quasi mai, cibo di qualità (il che significa in particolare non studiare mai né leggere mai testi letterari): indubbiamente così la mente tende a rimpicciolirsi, ma non muore, restando comunque viva, dato che deve, almeno di quando in quando, elaborare gli eventi della vita, e d’altra parte ha sempre a disposizione (soprattutto nel mondo contemporaneo) nutrimento di pessima qualità in abbondanza: news di basso livello (il vero giornalismo invece è anch’esso, senza dubbio, un buon cibo per la mente), contenuti scadenti letti sui social network, pubblicità varie, programmi televisivi di serie B (di nuovo, la TV di buon livello, il buon cinema e il teatro, sono ovviamente anche ottimi cibi per la mente, per quanto la lettura, a mio parere, resti comunque su un piano superiore, poiché maggiormente impegnativa in termini di utilizzo attivo e creativo della mente), ecc.
Ma, tornando al sanscrito, il punto è che chi comincia a nutrirsi di grammatica sanscrita, che è senza dubbio un cibo di altissima qualità seppur di non facile digestione poiché oggettivamente alquanto impegnativo (del resto anche la letteratura di un certo livello richiede sempre un certo sforzo), chi comincia, dicevo, a nutrirsi di grammatica sanscrita, è bene che per un paio d’anni ne mangi con regolarità, altrimenti finirà per trovarla indigesta e, di conseguenza, la abbandonerà.
Si potrebbe dire che la grammatica sanscrita è come una radice dalle proprietà altamente salutari e tonificanti, ma che va masticata con energia e costanza, poiché una volta iniziata, se la si lascia lì, essa s’indurisce, e diventa troppo amara, perdendo molte, se non tutte le sue proprietà benefiche, e finendo per diventare immangiabile.
Non c’è dubbio del resto che se non ci si tonifica, e non ci si potenzia, masticando a fondo e con regolarità la radice che è la grammatica di base del sanscrito, certamente non si potrà mai gustare il raffinato cibo offerto dalla letteratura sanscrita.
E non potersi gustare “le portate” della letteratura sanscrita è perdersi molto: la perfezione formale, la bellezza e la profondità di certi testi poetici, l’immensità spirituale di certe pagine mistiche, la lucidità assoluta di certe definizioni dell’esistenza umana, sono un inestimabile patrimonio culturale dell’umanità, che nulla ha di meno rispetto al patrimonio costituito dalla letteratura classica greco-romana su cui si basa, com’è ben noto, gran parte della civiltà occidentale nel suo complesso.
Con l’enorme differenza, rispetto al greco o al latino, che essendo il sanscrito una lingua astratta, il che significa volutamente diversa dalle lingue naturali in molti dei suoi procedimenti più importanti, rendere in una lingua moderna la ricchezza dell’originale è non solo un’opera ardua (come certamente lo è tradurre dal latino o dal greco antico), ma è decisamente qualcosa che rasenta l’impossibile.
D’altra parte, con un paio d’anni di studio serio della grammatica di base del sanscrito, si possono cominciare ad assaggiare (prima, ovviamente, a piccole — e sudate — dosi, e sotto la guida di un esperto) le mirabili portate di cui abbonda la letteratura sanscrita, che non solo arricchiscono enormemente la propria conoscenza in quanto tali, ma grazie alla loro specificità e diversità (non si basano minimamente, come è ovvio che sia, sui classici greci e latini!), sono passibili di amplificare, grazie alla loro diversità, il senso profondo delle conoscenze già presenti nel proprio bagaglio culturale.
Ma come è possibile che bastino un paio d’anni di studio per cominciare a relazionarsi in prima persona con dei testi in sanscrito traendone profitto?
E’ possibile per lo stesso motivo — paradossalmente — per il quale il sanscrito classico è di fatto quasi impossibile da tradurre in una lingua moderna senza perdere moltissimo della forza dell’originale: perché nell’astrarsi dalle lingue naturali, nel volersi sottrarre all’erosione del tempo, dello spazio e dell’usura, erosione cui tutte le lingue naturali sono sottoposte, il sanscrito ha fatto ordine nella sua grammatica, e l’ha fatto una volta per tutte, inibendo in tal modo quel fenomeno di stratificazione e differenziazione geografica e cronologica (nonché legato alle specificità dei singoli autori) cui tutte le lingue (a partire dal latino e dal greco antico) sono soggette, e che rende le loro grammatiche molto più complesse e più difficili da memorizzare rispetto a quella del sanscrito, in quanto, rispetto a quest’ultima, risultano, e in effetti sono, parecchio caotiche e notevolmente irregolari.
Per carità, non mi si fraintenda, non ci vogliono solo due anni per imparare il sanscrito: tutt’altro! Per essere a proprio agio su un testo sanscrito, di anni di studio ce ne vogliono almeno 5, e possibilmente qualcuno di più: 8, 10, e comunque è probabile che non si leggerà mai il sanscrito come si legge l’inglese o il tedesco, e neppure come si legge il latino o il greco: c’è sempre una scorza particolarmente dura che avvolge il sanscrito, che non di rado spezza i denti anche dopo più di 20 anni di studio (e se non ci si procura una traduzione e/o un commento in sanscrito che ci guidino un po’, non di rado capita di doversi arrendere al fatto che non se ne giunge del tutto a capo).
Però il fatto è che il sanscrito si impara usandolo, e con un paio d’anni di studio della grammatica e della sintasi di base si può cominciare appunto a usarlo: del resto la letteratura sanscrita è incredibilmente vasta, e soprattutto enormemente complessa a livello ermeneutico, principalmente per l’alterità complessiva della civiltà indiana, ma utilizzandolo — cioè indagando in prima persona, e nell’originale, testi di proprio interesse scritti in sanscrito — si diventa sempre più abili a operare col sanscrito, e così facendo a trarre concreto profitto dai passi che si indagano in termini di reale e cospicuo arricchimento culturale (nonché di godimento estetico, se si tratta di letteratura d’arte).
Studiando passi i cui argomenti ci interessano e ci toccano profondamente, argomenti cioè di cui si ha molta “fame” — siano essi tratti da testi poetici, o filosofici, o medici, o giuridici, o teologici, o matematici, o di geometria, o di qualunque argomento, dato che praticamente nessun ambito dello scibile umano è escluso dai testi in sanscrito — si toccherà con mano quanto il sanscrito sia una grandissima risorsa, un potentissimo strumento, capace di ampliare e approfondire le proprie conoscenze, e a volte di aprire decisamente nuovi orizzonti.
Imparare il sanscrito non è dunque un’attività fine a se stessa, e la conoscenza del sanscrito non sarà mai qualcosa di cui potremo pavoneggiarci o sentirci sicuri: lo studio del sanscrito, superata la fase dell’apprendimento della grammatica di base, si concretizza nello scoprire livelli semantici e stilistici nascosti nei testi che decidiamo di indagare, che nessuna traduzione potrebbe mostrarci e che rimarrebbero perciò completamente inacessibili se non sapessimo il sanscrito.
Ma per fare questo salto di qualità, lo voglio ripetere, bisogna prima impegnarsi ad assimilare la grammatica di base, che è poi la struttura che puntella il sanscrito “da dentro” rendendolo immutabile grazie a quelle stesse regole grammaticali che bisogna appunto conoscere se si vuole poter essere autonomamente attivi su un testo sanscrito, seguendo le proprie esigenze di ricerca (raggiungendo cioè quello che il Prof. Daya Krishna chiama il “working knowledge of Sanskrit”).
E’ il controllo che il compositore in sanscrito esercita su ogni aspetto delle parole che utilizza, unito alla concreta possibilità per il fruitore di seguire, grammaticalmente, le sue scelte e i suoi percorsi semantici, a rendere unica l’esperienza della lettura in sanscrito.
In tutto ciò, c’è un’altra importante, e ottima senza dubbio, notizia: se uno si è impegnato a studiare la grammatica ma non è riuscito a masticarla abbastanza a fondo per riuscire ad abbordare gli originali in sanscrito, ebbene tutto ciò che avrà studiato riguarda da vicino il funzionamento anche di qualunque altra lingua indoeuropea.
Studiare la grammatica del sanscrito fa quindi in ogni caso bene (pur se non si dovvesse mai raggiungere il menzionato “working knowledge of Sanskrit”) alle parole di ciascuno di noi, e non si spreca un solo secondo del proprio studio e della propria fatica, che si riesca o meno poi a cimentarsi nella traduzione di testi in sanscrito.